Violenza domestica e rischio suicidario: cosa racconta la ricerca torinese sulla sofferenza invisibile
di Redazione
21/11/2025
Tra le righe della ricerca firmata da Georgia Zara, Paola Torrioni e Agata Benfante si coglie la profondità di un fenomeno che raramente emerge nella sua interezza. La violenza agita all’interno di una relazione affettiva non rimane confinata agli episodi concreti che la rendono riconoscibile, ma si trasforma in un sistema che corrode lentamente la capacità di resistere. Lo studio dell’Università di Torino, pubblicato su Trauma, Violence & Abuse, mette ordine in una letteratura vasta e disomogenea, offrendo una lettura che non si limita ai numeri ma ricostruisce i meccanismi che portano molte donne a pensare — o tentare — il suicidio.
Quando la relazione diventa una gabbia e la morte appare come unica uscita
Il quadro che emerge dall’analisi dei 22 studi presi in esame è particolarmente duro: la violenza del partner crea condizioni psicologiche tali da far maturare una convinzione devastante, quella che la morte rappresenti l’unico modo per sottrarsi alla sofferenza. Le testimonianze riportate nella letteratura scientifica parlano di identità frantumate, di paure quotidiane, di un controllo costante che priva le vittime di ogni percezione di possibilità.
Le forme di violenza considerate — fisica, psicologica, emotiva, sessuale ed economica — non agiscono isolatamente ma si sommano, affermandosi come un ambiente totalizzante che impedisce di immaginare alternative. Questa condizione, acuita dal timore di parlarne o dall’impossibilità materiale di farlo, spinge molte donne a maturare pensieri suicidari molto prima che qualcuno riesca a intercettare la loro sofferenza.
Un presidio che può cambiare il destino: il pronto soccorso
La ricerca torinese insiste su un punto che può cambiare la traiettoria di molte vite: il pronto soccorso è spesso il primo e unico luogo in cui la persona entra in contatto con un sistema che potrebbe riconoscere la violenza. Tuttavia, accade con frequenza che la violenza non venga rilevata, e che il tentativo di suicidio venga trattato come un episodio isolato. Questo errore diagnostico e relazionale espone la donna a un pericolo immediato: tornare nella stessa casa, con lo stesso partner, nelle stesse condizioni che hanno portato al gesto.
Zara, Torrioni e Benfante sottolineano l’urgenza di formare il personale sanitario affinché sia in grado di instaurare un clima di fiducia e porre le domande che possono far emergere ciò che spesso viene taciuto. Uno screening sistematico del rischio di violenza nelle relazioni intime durante il percorso di emergenza rappresenterebbe non solo una misura sanitaria, ma un intervento di protezione che può interrompere un ciclo potenzialmente letale.
Lo studio, primo nel suo genere a collegare in modo strutturato violenza di partner e suicidalità nel contesto del pronto soccorso, chiama a un impegno collettivo che coinvolge istituzioni, reti territoriali e competenze multidisciplinari. Perché, quando la violenza non viene riconosciuta, ciò che accade dopo la dimissione è spesso un ritorno alla stessa sofferenza da cui si cercava di fuggire.
Redazione