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Il ritorno del negozio sotto casa: cosa rivela la fotografia urbana scattata da Confcommercio–SWG

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di Redazione

21/11/2025

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Il desiderio di avere un negozio sotto casa non appartiene alla nostalgia, ma alla ricerca di un equilibrio più sostenibile nel vivere quotidiano. A dirlo è l’indagine Confcommercio–SWG presentata a Bologna, che mette in luce come due terzi degli italiani vedano nei negozi di prossimità un punto di riferimento utile per ridurre gli spostamenti, semplificare la gestione della giornata e, allo stesso tempo, mantenere vivo il carattere dei quartieri.

La rete commerciale come elemento di qualità urbana

Il dato forse più significativo riguarda la percezione collettiva del negozio di vicinato come presidio sociale. Il 64% degli intervistati ritiene che contribuisca a creare relazioni, il 62% che migliori la cura e la pulizia degli spazi pubblici, il 60% che aumenti il senso di sicurezza. Una visione che restituisce chiaramente come il commercio non sia solo un settore economico ma anche un fattore culturale, capace di influenzare il modo in cui una comunità si percepisce e si racconta.

Gli effetti sono visibili anche sul valore immobiliare: nelle aree servite da un’offerta commerciale ampia e articolata, una casa può valere fino al 23% in più rispetto a zone meno attrezzate, mentre nei quartieri segnati dalla chiusura di molte attività la perdita media tocca il 16%. Un divario complessivo che arriva al 39% e che racconta quanto sia profondo il legame tra vitalità economica e vivibilità urbana.

Le attività che scompaiono e quelle che resistono

Il dato più amaro della ricerca riguarda però la scomparsa di molti negozi tradizionali. Librerie, negozi di giocattoli, abbigliamento, profumerie, ferramenta e alimentari risultano tra le categorie più colpite nell’ultimo decennio. Le percentuali raccolte dall’indagine rendono chiaro il sentimento diffuso: l’80% prova un senso di tristezza osservando vetrine vuote, mentre quasi tre persone su quattro associano la desertificazione commerciale a un peggioramento del benessere quotidiano.

Se alcune categorie resistono – come farmacie e pubblici esercizi – il resto del quadro appare frammentato, con abitudini di acquisto che oscillano tra negozi di quartiere, grande distribuzione e commercio ambulante. Bar, tabaccai e farmacie restano punti di riferimento solidi, mentre per elettronica, articoli sportivi e alimentari a lunga conservazione dominano supermercati e grandi superfici.

L’indagine affronta anche uno dei temi più delicati nei centri urbani: la pressione del turismo. Quasi metà dei residenti nelle città più visitate ritiene eccessiva l’espansione delle attività legate al cibo, mentre un 23% segnala la proliferazione di negozi destinati quasi esclusivamente ai visitatori. Un ulteriore 17% parla apertamente di sostituzione delle botteghe tradizionali con prodotti turistificati, percepita come una perdita di autenticità.

A questo si aggiunge la preoccupazione per gli affitti brevi, indicati dal 50% degli intervistati come causa dell’aumento dei canoni e dal 42% come fattore che riduce l’offerta abitativa. Un equilibrio fragile, che chiama in causa politiche urbane capaci di conciliare vocazione turistica e diritti dei residenti.

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